Uso legittimo delle armi

Versione stampabileVersione stampabile

Tale scriminante ha natura sussidiaria e si applica solo quando non può trovare applicazione la legittima difesa e l’adempimento di un dovere. Per poter beneficiare della scriminante occorre essere un «Pubblico Ufficiale».

Il Pubblico Ufficiale appartenente alla forza pubblica, è autorizzato a far uso delle armi e degli altri mezzi di coazione fisica (sfollagente, cani, idranti, gas lacrimogeni) quando (art. 53 c.p. e art. 14 Legge 22/5/75, n. 152):

  1. sono in corso una violenza o una resistenza (o comunque impedire la consumazione di uno dei delitti indicati dall’art. 53 c.p.: strage, naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona);
  2. il Pubblico Ufficiale agisce al fine di adempiere un dovere;
  3. l’uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica è necessario e proporzionato
  • Si pensi ad esempio, al caso del diportista che offende senza alcuna manifestazione di violenza, il comandante della motovedetta della Guardia Costiera che lo ha fermato per il previsto controllo alle dotazioni di bordo. Il comandante non può far uso legittimo di armi, ma non può far uso neppure di altri e meno offensivi strumenti di coazione fisica.

 

 

L’art. 53 c.p., consente infatti l’impiego della forza fisica solo in presenza di alcuni reati ovvero di violenza o resistenza. Il mezzo deve essere, cioè, sempre necessario e proporzionato.

Quella prevista dall’art. 53 c.p. è una causa di giustificazione «propria», nel senso che la possono invocare solo i soggetti da essa stessa indicati.
In primo luogo possono invocarla solo i Pubblici Ufficiali, e neppure tutti: poiché, infatti, come vedremo, la scriminante opera solo quando il  Pubblico Ufficiale fa uso delle armi per adempiere ad un dovere del suo ufficio, in pratica possono invocarla solo quei pubblici Ufficiali che, per motivi di ufficio, possono portare armi senza licenza. E cioè i soggetti indicati nell’art. 73 del Regolamento al T.U.L.P.S. (R.D. 6 maggio 1940, n. 635)[1]

Oltre al Pubblico Ufficiale che può portare armi senza licenza, l’uso legittimo delle armi è applicabile anche a tutti i soggetti che, su legale richiesta del Pubblico Ufficiale, gli prestino assistenza: la richiesta del Pubblico Ufficiale al privato è legale quando è stata fatta nei limiti e nei casi previsti dagli artt. 652 c.p. e 380 c.p.p.
Il legislatore ha, dunque, sancito una «riserva di competenza» a favore del circa le situazioni in cui è legittimo il ricorso all’uso delle armi o da altro mezzo di coazione fisica. In ogni caso la richiesta deve essere formulata espressamente dal Pubblico Ufficiale e deve avvenire prima dell’uso delle armi. Non scrimina, dunque, l’eventuale consenso prestato «a posteriori».
La causa di giustificazione opera sia nel caso in cui il Pubblico Ufficiale abbia personalmente fatto uso delle armi, che nel caso in cui egli abbia ordinato ad altri a far uso delle armi; tuttavia, mentre il Pubblico Ufficiale che fa direttamente uso o ordina di far uso delle armi è scriminato in base all’art. 53 c.p., chi ne fa uso per ordine del superiore è scriminato in base all’adempimento del dovere se ed in quanto ne sussistono i presupposti. 
Condizioni di applicabilità (necessità e resistenza):
La prima condizione richiesta per la sussistenza dell’uso legittimo delle armi è che il soggetto sia determinato dal fine di adempiere un dovere del suo ufficio: l’uso legittimo delle armi deve essere diretto ad eliminare un ostacolo che si è frapposto tra lui e il dovere da adempiere[2].
Inoltre il soggetto deve essere costretto a far uso delle armi dalla «necessità»: con l’espresso richiamo alla necessità il legislatore ha voluto chiarire che, in ogni caso, l’uso delle armi costituisce l’extrema ratio, cui si può fare ricorso soltanto quando il fine non può raggiungersi in altro modo, salvaguardando sempre l’integrità fisica degli individui (ad esempio, ricorrendo all’uso di idranti, lacrimogeni, ecc.). 

L’uso delle armi viene ritenuto necessario nei casi in cui occorre:

  1. respingere una violenza
  2. vincere una resistenza
  3. impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona.

Vi è «violenza» da respingere, quando nei confronti del Pubblico Ufficiale viene impiegata una forza fisica o morale diretta a costringerlo a compiere un atto contrario ai suoi doveri di ufficio o ad omettere il compimento di un atto di ufficio. Non è richiesto che essa configuri il reato previsto dall’art. 336 c.p. (violenza o minaccia a ), essendo sufficiente una qualsiasi violenza, anche fine a se stessa purché si concretizzi in un atteggiamento minaccioso in atto.

  • Ad esempio, si ha «violenza» nel caso in cui alcuni familiari dell’equipaggio di una nave da pesca (sorpresa ad effettuare la pesca mediante materiale esplodente) si introducono negli uffici della Capitaneria di Porto e, sotto la minaccia delle armi, tentano di costringere gli uomini della Guardia Costiera a rilasciare i marittimi appena arrestati: quelle persone, infatti, con il loro atteggiamento intimidatorio, mirano a costringere il Pubblico Ufficiale a commettere un atto contrario ai doveri di ufficio (la liberazione illegittima degli arrestati legalmente).

 

 

Vi è, invece, «resistenza» da vincere, quando da parte di terzi, viene tenuto un atteggiamento diretto ad impedire od ostacolare il Pubblico Ufficiale mentre compie un atto del suo ufficio

  • Si ha, ad esempio, «resistenza» se i membri di equipaggio di altro peschereccio affrontano gli uomini della Guardia Costiera mentre questi effettuano l’arresto dell’equipaggio della motopesca sorpreso nella flagranza dei reato: in questo caso, infatti, l’atteggiamento intimidatorio dei marittimi non mira, come nella violenza, a far assumere ai pubblici Ufficiali una decisione contraria ai doveri di ufficio, ma ad ostacolare l’esecuzione di un atto del loro ufficio (l’esecuzione dell’arresto).

Si discute se nell’ambito della "resistenza" rientri oltre quella «attiva» (che si concreta nell’effettiva opposizione di una forza illegittima) anche quella «passiva» quale l’inerzia o la fuga per impedire al Pubblico Ufficiale di adempiere un dovere di ufficio.

Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente la «fuga» costituisce una ipotesi tipica di «resistenza passiva», per cui, in linea generale, si elude il ricorso all’uso delle armi. In tale caso infatti manca un rapporto di proporzione fra l’uso delle armi e il carattere non violento della resistenza opposta.
La giurisprudenza infatti sostiene che l’uso delle armi contro chi si sottrae con la fuga ad una intimidazione o all’arresto non è legittimo, salvo le eccezioni previste da specifiche disposizioni di legge quali quelle in materia di contrabbando, passaggio abusivo delle frontiere, custodia dei detenuti.
L’art. 53 c.p. prende poi in considerazione anche un’altra ipotesi di uso legittimo delle armi. Essa si verifica per impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona (secondo parte della dottrina tale ipotesi ha dato addirittura alla forza pubblica la «licenza di uccidere»).
L’ipotesi è stata introdotta con l’art. 14 della Legge 22 maggio 1975, n. 152 (Legge Reale). Di uso legittimo può parlarsi solo quando tali reati hanno raggiunto la soglia del tentativo e non si è ancora consolidata la lesione degli interessi da essi offesi.

 

 

L’ultimo comma dell’art. 52 c.p. richiama gli altri casi in cui la legge consente l’uso delle armi.

 


[1] I Pubblici Ufficiali appartenenti alla Forza Pubblica: polizia giudiziaria, pubblica sicurezza nonché militari in servizio di pubblica sicurezza.

[2] Vengono esclusi dalla previsione di legge non solo quei casi in cui il soggetto abbia di mira un fine privato (ad esempio, uno scopo di vendetta), ma anche i casi in cui il soggetto abbia per fine l’adempimento di una facoltà e non di un dovere del proprio ufficio.