In via di aggioenamento - Legge Anticorruzione
Nel titolo II del libro II del Codice penale, sono previsti e puniti «i fatti» che impediscono o turbano il regolare svolgimento di ogni attività dello Stato e degli enti pubblici.
E’ facile comprendere che il regolare e proficuo svolgimento (o meglio, il buon andamento e la imparzialità) delle attività della pubblica amministrazione può essere "turbato" sia dalle condotte di quelle stesse persone che sono chiamate ad esercitare tali attività (Pubblici Ufficiali, incaricati di un pubblico servizio che vengono meno ai loro doveri….) sia dalle condotte dei privati che vengono in contatto con gli organi della pubblica amministrazione e che tendono a condizionarli.
Commette l'ipotesi di reato previta dall'art. 314 c.p., il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria.
Soggetto attivo di un tale reato può essere solo il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio (è quindi un reato proprio).
Presupposto del reato è il possesso o comunque la disponibilità della cosa da parte del pubblico funzionario, cioè la possibilità dello stesso di disporre la cosa, al di fuori della sfera altrui di vigilanza, sia in virtù di una situazione di fatto sia in conseguenza della funzione esplicata nell’ambito dell’Amministrazione.
Oggetto materiale del reato è il danaro o altra cosa mobile. La nuova formulazione dell’art. 314 c.p. non prescrive più che il denaro o la cosa mobile, oggetto del delitto, debba appartenere alla Pubblica Amministrazione, ma esige solo che essa si trovi nel possesso o nella disponibilità del soggetto attivo.
Il fatto materiale consiste nella appropriazione del denaro o della cosa mobile posseduti per ragione dell’ufficio o del servizio da parte del Pubblico Ufficiale.
L’art. 1 della Legge 26 aprile 1990, n. 86 recante modifiche in tema di delitti dei Pubblici Ufficiali contro la Pubblica Amministrazione contempla poi l’ipotesi di «peculato d’uso» che si realizza quando il soggetto utilizza temporaneamente, per finalità private, cose fungibili con il proposito di restituirle, proposito che poi effettivamente realizza.
Per "uso temporaneo" non si intende un uso istantaneo, bensì limitato nel tempo, in modo da non compromettere seriamente la funzionalità della pubblica amministrazione (Cass. 16.5.1997, n. 4651).
Commette tale reato (art. 316 c.p.), il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, giovandosi dell’errore altrui, riceve o ritiene indebitamente, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità.
L’errore del privato deve essere "spontaneo", ed il funzionario deve essere in buona fede all’atto del ricevimento della cosa; se l’errore è "procurato dolosamente" da quest’ultimo ricorrerà, infatti, una diversa ipotesi criminosa, e cioè la "concussione" di cui all’art. 317 c.p.
Commette tale reato (art. 317 c.p.), il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, abusando delle sue qualità e dei suoi poteri, costringe o induce taluno a dare e a promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, danaro o altra utilità.
Soggetto attivo può essere sia il Pubblico Ufficiale che l’incaricato di un pubblico servizio, mentre soggetti passivi del reato sono contemporaneamente la Pubblica Amministrazione e la persona che subisce il danno derivante dall’abuso (pertanto il reato è plurioffensivo).
L’elemento oggettivo del reato esige:
L’abuso della funzione deve avere come effetto il costringimento o l’induzione della vittima a dare o promettere danaro o altra utilità non dovuta: il fatto costitutivo del reato, quindi, consiste nel «costringere» o nell’«indurre» (personalmente o a mezzo di terzi che operino come semplici nuncii), per il timore derivante dalla qualità o dai poteri dell’Agente, taluno alla promessa alla dazione.
"Costringere" significa usare violenza o minaccia per esercitare una pressione su un soggetto al fine di determinarlo a compiere un atto positivo o negativo che incide sul suo patrimonio. Non è necessaria una coercizione diretta, ma è sufficiente anche una coercizione indiretta ovvero una minaccia esplicita o implicita (Cass. 9.11.1982, n. 10559).
La "induzione", invece, si oggettiva in una attività dialettica dell’Agente che avvalendosi della sua autorità e ricorrendo ad argomentazioni di indole varia, fondate su elementi non privi di obiettiva veridicità, riesce a convincere il soggetto passivo alla datazione o alla promessa (Cass. 14.1.1983, n. 2819.
In questo caso la condotta non è vincolata a forme predeterminate e tassative, ma può estrinsecarsi in qualsiasi modo: è sufficiente che sia in concreto idonea ad influenzare l’intelletto e la volontà della vittima,convincendola della opportunità, per evitare il peggio, di aderire alla richiesta (Cass. 13.1.1968).
Rientra indubbiamente nell’ampio concetto di induzione anche l’attività che comporti un «inganno» della vittima, sia nella forma degli artifici o raggiri che nella forma della semplice menzogna o del finto consiglio.
In linea generale, ricorre il reato di "corruzione" (artt. 318-322) in tutti i casi in cui, per effetto di un accordo intervenuto fra un Pubblico Ufficiale ed un privato cittadino, il primo accetta dal secondo, per un atto relativo all’esercizio delle sue attribuzioni, un «compenso» che non gli sia dovuto.
Oggetto della tutela penale delle norme incriminatici in questione è l’interesse della Pubblica Amministrazione alla imparzialità, onestà e correttezza dei propri funzionari.
Il Codice distingue due forme fondamentali di corruzione:
â–º Nell’ambito di ciascuna ipotesi, il codice distingue, inoltre, tra:
Esaminando distintamente le quattro ipotesi criminose possiamo dire che rispondono del reato di «corruzione impropria antecedente» il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che rivesta la qualità di impiegato che, per compiere un atto del suo ufficio riceve, per sé o per un terzo, in danaro o altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta o ne accetta la promessa,nonché colui che dà o promette la retribuzione.
Rispondono del reato di «corruzione impropria susseguente» il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che riceve la retribuzione indebita per un atto d’ufficio da lui già compiuto.
Di tale reato risponde solo il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio e non anche il corruttore.
Rispondono del reato di «corruzione propria antecedente» il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, per ottenere o ritardare un atto del suo ufficio o per fare un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità.
Rispondono del reato di «corruzione propria susseguente» il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che riceve denaro o l’utilità per aver agito contro i doveri del suo ufficio o per aver omesso o ritardato un atto di ufficio, nonché colui che ha dato il danaro o l’utilità.
La corruzione pur avendo in comune con la concussione l’abuso delle funzioni e l’illiceità del profitto se ne differenzia per la posizione in cui si trovano le parti è per l’elemento psicologico. Nella corruzione le parti si trovano in condizioni di parità ed il privato è libero di porre in essere, d’accordo con il un illecito rapporto.
Nella concussione invece è caratteristica la posizione di preminenza del il Pubblico Ufficiale, di conseguenza, la determinazione all’illecito è la conseguenza della coartazione della volontà del privato soggiogata dall’impossibilità di conseguire in altro modo l’utile sperato.
Commette tale reato (art. 322 c.p.), chiunque offra o prometta denaro al pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio per indurlo a compiere un atto del proprio ufficio o servizio (istigazione alla corruzione impropria) ovvero indurlo ad omettere o ritardare un atto dell’ufficio o servizio o fare un atto contrario ai doveri d’ufficio (istigazione alla corruzione propria), nel caso in cui l’offerta o la promessa non venga accettata.
E’ pertanto un reato "monosoggettivo" perché è essenziale la «mancata accettazione» da parte del funzionario. E’ quindi un tentativo di corruzione previsto come reato autonomo per reagire ad un fatto che è grave insidia alla rettitudine e al disinteresse che devono accompagnare il funzionario, il tentativo pertanto non è configurabile.
Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato[1], commette tale reato (art. 323 c.p.), il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto.
Il reato di abuso di ufficio così delineato è frutto di modifiche introdotte dalla Legge 16 luglio 1997, n. 234.
L’aspetto più significativo della nuova formulazione dell’art. 323 c.p. è rappresentato dal fatto che la configurabilità del reato è ancorata al verificarsi di un «evento di danno», consistente nell’aver procurato a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero nell’aver arrecato ad altri un danno ingiusto. In tal modo il legislatore ha inteso individuare con maggiore precisione le condotte al fine di ridurre i margini di interpretazione affidata alla giurisprudenza.
Il reato in questione, non è più un reato di pericolo, come nella precedente formulazione, e ai fini della consumazione occorre che si sia verificato un «danno ingiusto» o che si sia procurato un «ingiusto vantaggio patrimoniale». La soglia della punibilità non si arresta più al pericolo di un vantaggio o di un danno, ma viene spostata in avanti al momento in cui vantaggio e danno da potenziali si trasformano in attuali.
Altro elemento di novità dell’articolo in esame riguarda la necessità della violazione di norme di legge o di regolamento realizzata dal il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio. Anche questo aspetto serve a circoscrivere la configurabilità dell’abuso mediante omissione: infatti, l’abuso può essere integrato anche da un comportamento omissivo che violi l’obbligo di fare imposto delle norme.
La condotta punita può consistere anche nella violazione dell’obbligo di astensione, non solo quando sussista un interesse proprio o di un prossimo congiunto, ma anche «negli altri casi prescritti». Questa espressione generica pone problemi sia sotto il profilo della tassatività che sotto quello della riserva di legge.
L’oggetto giuridico del reato in esame è rappresentato dal «buon andamento e dall’imparzialità della Pubblica Amministrazione da condotte viziate dall’affarismo privato dei suoi dipendenti» e soggetto attivo può essere il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio: si tratta, dunque, di un reato proprio.
[1] Ad esempio, è più grave reato la concussione (art. 318 c.p.)
Il "segreto d’ufficio" costituisce uno dei doveri fondamentali del Pubblico Ufficiale. Secondo la dottrina prevalente, il segreto è definibile come la situazione corrispondente ad un interesse giuridicamente apprezzabile di un soggetto a che un determinato contenuto di esperienza non sia rivelato a altri.
Il segreto è d’ufficio quando abbia ad oggetto «notizie d’ufficio», per tali intendendosi tutte le cognizioni facenti parte della competenza dell’ufficio o del servizio cui è addetto il soggetto obbligato al segreto. Tale obbligo può derivare da una legge, da un regolamento, da una consuetudine, ovvero dalla natura stessa della notizia, ricollegabile al tipo di attività svolta dall’agente, che può recar danno alla Pubblica Amministrazione.
L’art. 326 c.p. prevede "tre distinte figure" di reato configurabili come casi di inosservanza di segreto d’ufficio:
Se il profitto non è di natura patrimoniale, ovvero lo scopo è di cagionare ad altri un danno ingiusto, la pena è minore (art. 15 della Legge 26.4.1990).
Oggetto specifico della tutela penale è l’interesse della Pubblica Amministrazione, intesa in senso lato con riferimento anche alle funzioni legislative e giurisdizionali dello Stato, al normale svolgimento delle proprie attività.
L’elemento materiale del delitto doloso consiste nel portare a conoscenza di persona non autorizzata a riceverla la notizia d’ufficio destinata a restare segreta ovvero nel tenere un comportamento, positivo o negativo, che comunque faciliti al non autorizzato la cognizione della notizia.
Nella ipotesi, relativa alla agevolazione colposa, invece, la conoscenza del segreto da parte del non autorizzato avviene a seguito di negligenza del come nel caso in cui lo stesso lasci incustodito un importante documento riservato.
Con la nuova formulazione, introdotta dall’art. 16 della legge 26 aprile 1990, l’attuale art. 328 comma 1 c.p. punisce una condotta di rifiuto dell’atto d’ufficio.
Non è richiesta, quindi, la semplice omissione ma un’omissione qualificata da una manifestazione di volontà contraria al compimento dell’atto che potrà essere espressa (quando il soggetto tenuto ha dichiarato di non voler agire) o tacita (quando egli sia rimasto inerte alle sollecitazioni rivoltegli). E’ inoltre necessario che l’atto «per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o di ordine o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo».
Quanto all’ipotesi prevista al secondo comma dell’art. 328, commette tale delitto il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, fuori dei casi previsti dal primo comma, entro 30 giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo.
La condotta punita è, in questo caso, l’omissione, e cioè il mancato compimento dell’atto dovuto.