Le cause di giustificazione (o scriminanti) del Codice penale militare sono caratterizzate da una autonoma disciplina e costruite secondo asserite esigenze specifiche dell’ordinamento militare. Interventi del legislatore[1] [1] [1] e della Corte costituzionale, verificatesi in anni recenti, hanno fortemente ridimensionato questo settore, rendendolo meno anomalo rispetto al sistema del diritto penale comune. Basti leggere l’art. 42 c.p.m.p. (difesa legittima) per rendersi immediatamente conto che il legislatore militare opera una rielaborazione dell’istituto, strutturandolo con criteri sensibilmente diversi da quelli seguiti dal legislatore comune: operazione che egli compie, sia pure in minor misura, anche nell’art. 41 c.p.m.p. (uso legittimo delle armi).
Ne deriva la possibilità di raggruppare in "tre categorie" le cause di giustificazione operanti nel diritto penale militare:
Gli interventi di cui abbiamo accennato hanno modificato tale impostazione, perché l’adempimento di un dovere è passato dal secondo al primo gruppo e la coercizione diretta è stata abolita; inoltre un intervento della Corte costituzionale ha ridotto le differenze tra difesa legittima militare e difesa legittima comune
Nello studiare le singole scriminanti analizzeremo i singoli istituti secondo un criterio di opportunità pratica, sia per seguire nell’analisi un più chiaro sviluppo logico, sia per evitare inutili ripetizioni. Così, ad esempio, tratteremo della c.d. necessità militare subito dopo l’adempimento di un dovere poiché la prima si presenta come figura speciale del secondo; ad entrambi, però, dovrà precedere la trattazione dello stato di necessità, dal momento che, a prima vista, quest’ultima scriminante parrebbe affine alla c.d. necessità militare.
Parimenti, tratteremo dell’uso legittimo delle armi dopo aver trattato dell’esercizio di un diritto e, quale primo istituto, affronteremo la legittima difesa, che, fra tutte le scriminanti, presenta la struttura più complessa e la disciplina più elaborata.
[1] [2] [2] L’art. 22 Legge 11 luglio 19778, n. 382 ha abrogato l’art. 40 c.p.m.p. (Adempimento di un dovere).
Prima di passare all’esame analitico delle varie scriminanti, è necessario soffermarci brevemente su di un istituto che in particolare interessa la disciplina di tutte le cause di giustificazione: l' eccesso colposo.
Anche per le cause di giustificazione previste la Codice penale militare di pace (legittima difesa, uso legittimo delle armi e necessità militare, come per quelle previste nel Codice penale comune all’art. 55, è ipotizzabile, infatti, l’eccesso colposo (art. 45 c.p.m.p.): esso si verifica – nella legittima difesa, nell’uso legittimo delle armi e nei casi particolari di necessità militare - quando si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall'ordine del superiore o di altra Autorità, ovvero imposti dalla necessità.
Risulta subito evidente il perfetto parallelismo di questa norma con l’art. 55 c.p.
L’art. 45 c.p.m.p. recita testualmente: «Quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 40, 41, 42, escluso l'ultimo comma, e 44, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall'ordine del superiore o di altra autorità, ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i reati colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come reato colposo».
L’insubordinazione con violenza è prevista solo nella forma dolosa; ma essa, oltre all’interesse militare della disciplina, offende anche interessi comuni (l’incolumità personale) e pertanto l’eccesso colposo in una causa giustificante tale reato militare (difesa legittima, appunto) lascia sussistere una responsabilità colposa del militare per il reato comune di lesioni personali.
Il Codice penale comune all’art. 52 c.p. dichiara che non è punibile «chi ha commesso un fatto costituente reato perché costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui dal pericolo attuale di una offesa ingiusta da parte di un terzo, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa».
Nei casi previsti dall’art. 614, 1°e 2°comma, sussiste il rapporto di proporzionalità di cui al 1° comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:
La disposizione del 2° comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale». Il che vuol dire, in altre parole, che contro l’aggressione ingiusta di un diritto proprio (inerente alla persona o alle cose) o altrui (c.d. soccorso difensivo) sipuò reagire anche commettendo fatti costituenti reato.
I presupposti essenziali per la applicazione della legittima difesa sono due:
L’art. 42 c.p.m.p., stabilisce che: «Per i reati militari, in luogo dell'articolo 52 del codice penale, si applicano le disposizioni dei commi seguenti.
Se il fatto è commesso nell'atto di respingere gli autori di scalata, rottura o incendio alla casa o ad altro edificio di abitazione, o alle loro appartenenze, e non ricorrono le condizioni previste dal n. 2 del comma precedente, alla pena di morte con degradazione è sostituita la reclusione non inferiore a dieci anni; alla pena dell'ergastolo è sostituita la reclusione da sei a venti anni; e le altre pene sono diminuite da un terzo alla metà».
Le differenze tra l’istituto di diritto comune e l’istituto militare emergono nettissime qualora ci si addentri nell’esame comparativo dei requisiti “dell’aggressione” e di quelli “della reazione” nell’una e nell’altra scriminante.
Circa i requisiti dell’aggressione, l’art. 52 Codice penale comune richiede che:
Ciò significa che le legittima difesa è accordata non solo a tutela dei diritti inerenti alla persona (vita, incolumità fisica, pudore, ecc.) ma anche a tutela dei diritti patrimoniali; che non occorre che l’aggressione sia violenta, bastando ai fini dell’aggressione anche l’uso di mezzi non violenti e persino l’atteggiamento passivo; che la minaccia al diritto deve essere in contrasto con i precetti dell’ordinamento giuridico e deve creare per il diritto un pericolo presente nel momento in cui avviene il fatto reattivo.
L’art. 42 c.p.m.p. restringe notevolmente l’ampiezza di tali requisiti. Essa parla di «necessità di respingere da sé o da altri una violenza attuale e ingiusta».
In tal modo viene a circoscrivere il concetto di «aggressione» alla sola ipotesi della violenza; e poiché la nozione di violenza è offerta dall’art. 43, il quale afferma che «agli effetti della legge penale militare, sotto la denominazione di violenza si comprendono l'omicidio, ancorché tentato o preterintenzionale, le lesioni personali, le percosse, i maltrattamenti, e qualsiasi tentativo di offendere con armi», ne discende inevitabilmente che il bene oggetto dell’aggressione deve essere il diritto alla vita o il diritto all’integrità fisica e che le modalità dell’aggressione devono consistere in un comportamento attivo e violento.
Non solo, ma mentre, per l’art. 52 Codice penale comune, «attuale» deve essere il “pericolo dell’offesa”, per l’art. 42 c.p.m.p. «attuale» deve essere la “violenza”, sì ché è preclusa la difesa preventiva.
Ma poiché una violenza consumata non può essere respinta, violenza attuale va intesa anche come violenza imminente: non è necessario attendere che l’aggressore spari il primo proiettile per reagire difensivamente.
Circa i requisiti della reazione, l’art. 52 Codice penale comune richiede che quest’ultima sia «necessaria» per difendere il diritto minacciato, e «proporzionata» alla difesa.
Perché ricorra tale scriminante occorre che la reazione sia legittima (per essere tale deve cadere sull’aggredito) e deve presentarsi come necessaria (non poteva essere evitata) ossia il soggetto è nella alternativa tra reagire o subire; occorre inoltre la inevitabilità del pericolo, nel senso che non deve essere possibile evitare altrimenti l’offesa al diritto proprio o altrui.
La difesa deve essere proporzionata all’offesa; proporzione che secondo la dottrina più recente deve sussistere tra il male minacciato e quello inflitto (la giurisprudenza, tra l’altro, suggerisce di tenere conto anche delle condizioni dell’aggredito, dei mezzi di cui disponeva, del tempo e del luogo dell’aggressione, ecc.).
La reazione è certamente proporzionata e perciò legittima quando il male provocato all’aggressore è inferiore o appena superiore a quello subito. La proporzione deve sussistere fra il male minacciato e quello inflitto nonché fra i mezzi a disposizione e quelli da lui usati.
Anche per la legittima difesa militare il legislatore esige che la reazione risponda ai requisiti della necessità e della proporzionalità: nella determinazione concettuale di tali requisiti non vi è motivo alcuno per derogare ai principi tracciati dalla dottrina in materia di legittima difesa comune, stante la perfetta identità di formulazione legislativa su tali punti.
Si è posto in passato il problema, se la scriminante sia applicabile a chi, potendo salvarsi con la fuga, preferisce invece difendersi. La dottrina afferma concordemente che se per il “privato“ la fuga può essere talvolta possibile senza danno morale e senza menomazione della dignità, per il “militare “ ciò non avviene, poiché la fuga nuoce al prestigio della divisa e contrasta con le regole dell’etica militare e con l’alto sentimento dell’onore, profondamente radicato nell’ordinamento militare.
Si sostiene generalmente che nella legittima difesa militare il cosiddetto «prestigio della divisa» può essere in gioco tanto nel caso che il militare aggredito fugga, quanto nel caso che reagisca: se fugge, il militare nuoce al prestigio della divisa sottraendosi ad una violenza e dando l’impressione di essere codardo; se affronta la violenza e reagisce, nuoce al prestigio della divisa ledendo l’incolumità personale di un altro militare e molto spesso l’incolumità personale di un superiore, o comunque interessi della disciplina e del servizio.
Il Codice penale comune all’art. 54 dichiara che «non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato e non altrimenti evitabile». Questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo.
La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia, ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo.
In materia di «stato di necessità» i Codici penali militari non contengono alcuna espressa norma sostitutiva, integrativa o limitativa dell’art. 54 c.p. Vige quindi la causa di giustificazione “stato di necessità” così come configurata da tale articolo. L’art. 44 c.p.m.p. dichiara che «non è punibile il militare, che ha commesso un fatto costituente reato, per esservi stato costretto dalla necessità di impedire l'ammutinamento, la rivolta, il saccheggio, la devastazione, o comunque fatti tali da compromettere la sicurezza del posto, della nave o dell'aeromobile»
La norma, anzitutto, è diretta a scriminare qualsiasi reato (anche comune) e non semplicemente reati militari. Essa è diretta a scriminare tanto il militare che agisce per impedire reati militari (come la rivolta ex art. 174 c.p.m.p. o l’ammutinamento ex art. 175 c.p.m.p.) quanto il militare che agisce per impedire reati comuni (saccheggio o devastazione ex art. 285 o ex art. 419 c.p., ecc.).
A differenza dell’art. 54 Codice penale comune dove lo stato di necessità è ancorato alla strettissima nozione di “pericolo di danno grave alla persona“, esaminando attentamente l’art. 44 c.p.m.p. si nota che in esso il pericolo di un danno alla persona o non entra affatto in considerazione o, se entra, entra in modo molto indiretto.
Nel caso di “rivolta o di ammutinamento“ tale pericolo è normalmente da escludersi trattandosi di reati che offendono la disciplina militare, e che di regola non comportano pericolo per la vita, l’integrità fisica o l’integrità morale di persone: e se ciò può dirsi per il superiore, a maggior ragione può dirsi per il militare qualsiasi che spontaneamente intervenga per impedire la rivolta o l’ammutinamento.
Identico discorso può farsi per i reati di “saccheggio o di devastazione” sia che essi vengono in considerazione nella fattispecie comune, sia che vengano in considerazione nella fattispecie militare; il militare che interviene non è attaccato in qualche suo bene personale: egli interviene nell’interesse obiettivo dell’ordinamento militare al fine di impedire l’offesa della fedeltà militare (o, nel caso di reati comuni, l’offesa dell’ordine pubblico e della personalità dello Stato), cioè di beni che non lo riguardano personalmente.
L’ipotesi del «fatto tale da compromettere la sicurezza del posto, della nave o dell'aeromobile» può suggerire una considerazione lievemente diversa: un fatto che compromette la sicurezza del posto può importare un pericolo di danno per le persone dei militari che al posto stesso sono comandati.
Ma anche in tali casi, si badi, ciò che viene in considerazione in primo piano è la “sicurezza del posto”, della nave o dell’aeromobile (cioè un interesse militare obiettivo): mentre il pericolo di danno personale non acquista diretta rilevanza e resta in secondo piano, con carattere eminentemente eventuale.
A ciò si aggiunge che, mentre l’art. 54 Codice penale comune esige che il pericolo non sia stato volontariamente causato dal soggetto agente, l’art. 44 c.p.m.p. non contiene analoga prescrizione e non richiede che la situazione in cui agisce il militare non sia in alcun modo ricollegabile al comportamento volontario di quest’ultimo. La ragione di simile orientamento legislativo si ricerca nel fatto che nella situazione di cui all’art. 44 c.p.m.p. sono posti in pericolo, come abbiamo detto, non interessi personali del militare ma interessi obiettivi dell’ordinamento militare: il militare che reagisce per impedire l’offesa di tali interessi, viene così ad essere scriminato salva naturalmente la sua responsabilità per reati che eventualmente hanno causato la situazione di pericolo.
La scriminante dello stato di necessità consente a chi si trova in una situazione di grave pericolo di uscirne, anche e addirittura, commettendo reati a scapito di terzi innocenti (e non aggressori). Per la sussistenza di esso si richiede, a differenza della legittima difesa, un pericolo attuale e inevitabile di “un danno grave alla persona“ (cioè alla sua integrità fisica).
Peraltro tale disposizione non può essere invocata da chi abbia un particolare “dovere giuridico di esporsi al pericolo”(comandanti di navi militari e mercantili, Vigili del fuoco, ecc.). Vi sono molte norme incriminatrici militari che a prima vista sembrano sancire direttamente o indirettamente, a carico del militare, il “dovere” di esporsi al pericolo in determinate situazioni.
Quel dovere esclude l’applicabilità della scriminante; ma l’esclusione non opera quando non vi sia un rapporto diretto tra il dovere di esporsi al pericolo e il bene sacrificato.
Il pericolo di cui fanno menzione molte delle norme predette non è il «pericolo attuale di un danno grave alla persona» di cui parla l’art. 54 c.p.: è invece un pericolo oggettivo e impersonale (caso di pericolo, circostanze di pericolo) che riguarda non direttamente la persona in quanto tale, bensì il «posto, la nave, il servizio, la consegna, ecc.» e che lascia tuttavia un certo apprezzabile margine all’applicazione dell’art. 54 ogni qualvolta la situazione oggettiva e impersonale venga a concretare in effetti (e ciò potrà accadere assai di frequente) un «pericolo attuale di un danno grave alla persona», non volontariamente causato e non altrimenti evitabile.
Le norme dell’ordinamento militare impongono dunque al militare di compiere il suo dovere sino in fondo e di impegnarsi con tutte le forze per la difesa degli interessi militari: ma non gli impongono né gli imporrebbero imporre un vero e proprio suicidio, pur nel caso di grave pericolo.
Alcuni considerazioni:
Abbiamo detto che la scriminante dello stato di necessità non si applica a chi ha un particolare dovere di esporsi al pericolo. E’ questo, sempre il caso del militare o, almeno, del militare nell’adempimento di un servizio ?
La risposta è che il dovere di esporsi al pericolo è in relazione allo scopo del servizio e va quindi valutato caso per caso.
L’art. 22 legge 11 luglio 1978, n. 382 dispone: «L’art. 40 del codice penale militare di pace è abrogato». Scompare in tal modo la norma che escludeva l’applicazione dell’art. 51 c.p. al diritto penale militare; pertanto la sfera di efficacia dell’art. 51 si espande a comprendere anche i militari. La citata legge contiene però, in tema di “obbedienza militare”, anche un’altra norma importante.
[…]
Il militare osserva con senso di responsabilità e consapevole partecipazione tutte le norme attinenti alla disciplina e ai rapporti gerarchici.
[…]
Gli ordini devono, conformemente alle norme in vigore, attenere alla disciplina, riguardare il servizio e non eccedere i compiti d’istituto.
Il militare al quale viene impartito un ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui esecuzione costituisce comunque manifestamente reato, ha il dovere di non eseguire l’ordine e di informare al più presto i superiori.
Da parte sua il nuovo Regolamento di disciplina militare (D.P.R. 18 luglio 1986, n. 545) dispone nell’art. 25 ultimo comma:
[…]
Il militare al quale venga impartito un ordine che non ritenga conforme alle norme in vigore deve, con spirito di leale e fattiva partecipazione, farlo presente a chi lo ha impartito dichiarandone le ragioni, ed è tenuto ad eseguirlo se l’ordine è confermato. Secondo quanto disposto dalle norme di principio, il militare al quale viene impartito un ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui esecuzione costituisce comunque manifestamente reato, ha il dovere di non eseguire l’ordine ed informare al più presto i superiori.
Con la nuova normativa, viene per la prima volta affermato esplicitamente il dovere di disobbedienza, non soltanto in relazione all’ordine manifestamente criminoso sulla falsariga del vecchio (art. 40 c.p.m.p.), ma anche in relazione all’ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato.
L’art. 53 c.p. stabilisce che non è punibile il «Pubblico Ufficiale (appartenente alla forza pubblica e autorizzato a far uso delle armi e degli altri mezzi di coazione fisica) quando al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio fa uso ovvero ordina di fare uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica (sfollagente, cani, idranti, gas lacrimogeni), quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità».
Sono presupposti essenziali:
Tuttavia, non sempre il militare è un pubblico ufficiale: da ciò la necessità di estendere a lui, espressamente, quando si tratta di adempiere un dovere di servizio, questa causa di giustificazione, applicabile non solo ai reati militari ma anche ai reati comuni.
Se egli è in servizio di sentinella, il suo intervento, diretto a respingere una violenza nell’adempimento di un dovere, costituisce uso legittimo delle armi; se egli non è di servizio, il suo intervento, diretto ad impedire un fatto che comprometterebbe la sicurezza del posto, si inquadra tra i casi particolari di necessità militare.
L’art. 41 c.p.m.p. - introdotte le indispensabili modificazioni terminologiche (=militare e sevizio sostituiti rispettivamente a pubblico ufficiale, e ufficio) - configura l’istituto dell’uso legittimo delle armi ricalcando con relativa fedeltà l’art. 53 c.p.e dichiarando che: «non è punibile il militare, che, a fine di adempiere un suo dovere di servizio, fa uso, ovvero ordina di far uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza
La legge determina gli altri casi, nei quali il militare è autorizzato a usare le armi o altro mezzo di coazione fisica».
Come è noto, la scriminante in questione riguarda non soltanto l’uso delle armi, ma anche l’uso di qualsiasi mezzo do coazione fisica: sfollagente, getti d’acqua lanciati con idranti, gas lacrimogeni, uso della forza fisica per immobilizzare una persona, ricorso alle bombe stordenti, carosello di auto per disperdere un assembramento, ecc. I requisiti generali di questa causa di giustificazione consistono nella necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio o del servizio militare.
L’art. 53, 1° comma, nella modificazione introdotta dalla legge 22 maggio 1975, n. 152, precisa che la scriminante opera anche nel caso di necessità di impedire la consumazione di delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona.
Dall’analisi comparativa dell’ultimo comma dell’art. 41 c.p.m.p. e dell’art. 53 c.p. si rileva come la legge si riservi a determinare gli altri casi, nei quali il militare è autorizzato a usare le armi o altro mezzo di coazione fisica. Ciò significa che possono esistere casi nei quali non ricorre il presupposto generale della «necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza», ma nei quali è ugualmente scriminato l’uso delle armi da parte del militare (o da parte del pubblico ufficiale).
Trattasi di casi che sono tassativamente previsti dalla legge e sono riconducibili al 3° comma dell’art. 41 c.p.m.p., quali ad esempio:
► il caso di cui alla legge 4 marzo 1958 n. 100 “sull’uso delle armi da parte dei militari e degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria in servizio di frontiera e in zona di vigilanza” che stabilisce:
• art. 1 - E’ vietato fare uso delle armi contro le persone da parte dei militari e degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria in servizio di repressione del contrabbando in zona di vigilanza doganale, come determinato dalle vigenti disposizioni, fatta eccezione per i casi previsti dagli artt. 52, 53 primo comma e 54 del Codice Penale e quando:
a) il contrabbandiere sia armato palesemente.
b) il contrabbando sia compiuto in tempo di notte
c) i contrabbandieri agiscano raggruppati in non meno di tre persone.
• art. 2 - E’ vietato far uso delle armi, anche nelle ipotesi previste nelle lettere a) b) e c) dell’art.1 quando il contrabbandiere si dà alla fuga ed abbandona il carico.
• art. 3 - L’uso delle armi non è vietato contro gli autoveicoli e gli altri mezzi di trasporto veloci quando i conducenti non ottemperino all’intimazione di fermo e i militari non abbiano la possibilità di raggiungerli.
• art. 4 - Nel caso di militari che operino non isolati in servizio, l’ordine di far fuoco deve essere dato dal militare che ha il comando.
• art. 5 - L’uso delle armi ,nei casi in cui non è vietato a norma degli articoli precedenti deve essere preceduto da intimazione a voce o col gesto e dalla esplosione di almeno due colpi in aria.
• art. 6 - L’uso delle armi non è vietato quando il contrabbando sia compiuto con imbarcazioni nella zona di vigilanza doganale marittima e i capitani non ottemperino alle intimazioni di fermo, date con l’esplosione di almeno tre colpi in aria e, di notte, con segnalazioni luminose.
Il dovere non è quello di sparare, ma quello di reprimere il contrabbando in zona di vigilanza doganale: per attuare tale repressione il militare può far uso delle armi in ipotesi tassative.
► il caso di cui all’art. 158 T.U.L.P.S., che riguarda “l’impedimento di passaggi abusivi attraverso valichi di frontiera non autorizzati” ed integrato dall’art. 2 della legge 18 aprile 1940 n. 494.
• art. 158 TULPS - E’ autorizzato l’uso delle armi, quando sia necessario, per impedire i passaggi abusivi attraverso i valichi di frontiera non autorizzati
• art. 2 L. 494/40 – Agli effetti dell’applicazione dell’art. 158 T:U. leggi P.S., i predetti militari (in servizio di vigilanza alle frontiere) quando scorgono persone che tentano di oltrepassare clandestinamente la linea di frontiera, debbono intimare l’ALT con ogni mezzo idoneo a manifestare l’intimazione.
Contro le persone cui l’intimazione è fatta, che persistano nel tentativo di varcare la frontiera, il militare in servizio di vigilanza può fare uso delle armi.
► il caso di cui all’art. 41 legge 26 luglio 1975 n. 354, che riguarda l’impiego della forza fisica all’interno degli stabilimenti di pena per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere resistenze.
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[1] http://www.nonnodondolo.it/node/1683/edit#_ftn1
[2] http://www.nonnodondolo.it/node/1683/edit#_ftnref1