E’ facile comprendere che il "regolare e proficuo svolgimento (o meglio, il buon andamento e la imparzialità) delle attività della Pubblica amministrazione" può essere turbato sia dalle condotte di quelle stesse persone che sono chiamate ad esercitare tali funzioni sia dalle condotte dei privati che vengono in contatto con gli organi della Pubblica amministrazione e che tendono a condizionarli.
Nel titolo III del libro II del Codice penale, sono previsti e puniti i «fatti» che impediscono il «regolare e proficuo svolgimento della attività statale (amministrazione della giustizia) diretta ad applicare ai casi concreti le norme del diritto». E’ facile comprendere che l’interesse a iniziare tempestivamente il procedimento penale e pervenire alla punizione degli autori del reato non può essere raggiunto se, chi ha l’obbligo di farlo (Pubblico Ufficiale, incaricato di pubblico servizio, Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria), omette di riferire all’Autorità Giudiziaria la circostanza di avere acquisito una notizia di reato: in questa ipotesi, infatti, l’Autorità Giudiziaria non è in grado di iniziare il procedimento penale.
► Presupposto del fatto:
Occorre accertare innanzitutto che il Pubblico Ufficiale sia venuto a conoscenza di un reato perseguibile di ufficio, o nell’esercizio delle sue funzioni o a causa delle sue funzioni.
In questa ipotesi, non rientrando il reato nella sfera di nostra competenza, comunque in qualità di Pubblici Ufficiali, abbiamo l’obbligo di fare denuncia o direttamente all’Autorità giudiziaria o alla Stazione dei Carabinieri di Palau.
Peraltro, se il Pubblico Ufficiale è un Ufficiale o Agente di Polizia Giudiziaria (v. artt. 55 e 57 c.p.p.) basta accertare che abbia avuto notizia del reato: non importa in quale modo abbia avuto la notizia.
In questa ipotesi, rientrando il reato di inquinamento da nave nella sfera di nostra competenza (art. 23 Legge 979/82) in qualità di Ufficiali o Agenti di Polizia Giudiziaria, su di noi incombe istituzionalmente l’obbligo di «prendere notizia di reato» e di fare rapporto (=relazionare) al Dirigente dell’ufficio da cui dipendiamo per la successiva comunicazione della N.d.R. all’Autorità Giudiziaria.
Oppure, al caso in cui il personale di guardia in Capitaneria, viene a conoscenza, in occasione della procedura di sbarco di un marittimo, del «mancato aggiornamento, da parte dell’armatore, del piano di sicurezza dell’ambiente di lavoro» (artt. 6, comma 2 e 35 D.lgs. 271/99).
In questa ipotesi, rientrando il reato nella sfera di nostra competenza (art. 20 e ss. D.lgs. 271/99) in qualità di Ufficiali o Agenti di Polizia Giudiziaria, su di noi incombe istituzionalmente l’obbligo di «prendere notizia di reato» e di fare rapporto (=relazionare) al Dirigente dell’ufficio da cui dipendiamo per la successiva comunicazione della N.d.R. all’Autorità Giudiziaria.
► Elementi essenziali:
Accertato che il Pubblico Ufficiale sia venuto a conoscenza di un reato nell’esercizio o a causa delle sue funzioni – o semplicemente che sia venuto comunque a conoscenza di un reato, se quel Pubblico Ufficiale è un Ufficiale o un Agente di polizia giudiziaria – occorre accertare:
Qualora l’omissione o il ritardo fosse dipeso da negligenza, imprudenza o imperizia di fatto non costituirebbe reato, ma grave mancanza punibile in sede disciplinare (artt. 16 e 17 disp. Att. c.p.p.).
Ai sensi dell’art. 357 c.p., come novellato dalla Legge 26 aprile 1990, n. 86 e n. 181 del 1992, la "qualità" di Pubblico Ufficiale deve essere riconosciuta a quei soggetti che, pubblici dipendenti o semplici privati, quale che sia la loro posizione soggettiva, possono e debbono, nell’ambito di una potestà regolata dal diritto pubblico, formare e manifestare la volontà della Pubblica Amministrazione oppure esercitare, indipendentemente da formali investiture, poteri autoritativi, deliberativi o certificativi, disgiuntamente e non cumulativamente considerati (Cass. 4.6.1992, n. 6685).
Secondo recente giurisprudenza (Cass. Sez. Un. 11.7.1992, n. 7958), nel concetto di «poteri autoritativi» rientrano non solo quelli "coercitivi", ma anche tutte quelle attività che sono comunque esplicazione di un potere discrezionale nei confronti di un soggetto che si trova su un piano non paritetico rispetto all’Autorità.
Rientrano nel concetto di «poteri certificativi» tutte quelle attività di documentazione cui l’ordinamento assegna efficacia probatoria, quale che ne sia il grado.
Dalla definizione legislativa si deduce che "l’elemento" che caratterizza il Pubblico Ufficiale è l’esercizio di una funzione pubblica, intesa come ogni attività che realizza i fini propri dello Stato.
Tuttavia, poiché ancor oggi la dottrina pubblicistica non ha fornito una nozione univoca e sicura di pubblica funzione, vi è in concreto, in dottrina e giurisprudenza, molta incertezza circa l’esatta definizione in astratto del Pubblico Ufficiale , per cui vi sono, al riguardo, molteplici teorie.
Per alcuni autori la qualifica di Pubblico Ufficiale va attribuita a:
1. soggetti che concorrono a formare o formano la volontà dell’ente pubblico ovvero lo rappresentano all’esterno.
2. tutti coloro che sono muniti di poteri autoritativi.
3. tutti coloro che sono muniti di poteri di certificazione.
► La qualifica di Pubblico Ufficiale è stata riconosciuta ai seguenti soggetti:
Sono "incaricati di un pubblico servizio", ai sensi dell’art. 358 c.p., come novellato dall’art. 18 della Legge n. 86 del 1990, coloro i quali, pur agendo nell’ambito di un’attività disciplinata nelle forme della pubblica funzione, mancano dei poteri tipici di questa, purché non svolgano semplici mansioni di ordine, né prestino opera meramente materiale.
Il pubblico servizio è dunque attività di carattere intellettivo, caratterizzata, quanto al contenuto, dalla mancanza dei poteri autoritativi e certificativi propri della pubblica funzione, con la quale è solo in rapporto di accessorietà o complementarità (Cass. Sez. Un. 11.7.1992, n. 7958).
Peraltro, anche con riferimento alla definizione dell’incaricato di un pubblico servizio non mancano, in dottrina, diversità di opinioni e di teorie per la difficoltà di definire il pubblico servizio.
In via di aggioenamento - Legge Anticorruzione
Nel titolo II del libro II del Codice penale, sono previsti e puniti «i fatti» che impediscono o turbano il regolare svolgimento di ogni attività dello Stato e degli enti pubblici.
E’ facile comprendere che il regolare e proficuo svolgimento (o meglio, il buon andamento e la imparzialità) delle attività della pubblica amministrazione può essere "turbato" sia dalle condotte di quelle stesse persone che sono chiamate ad esercitare tali attività (Pubblici Ufficiali, incaricati di un pubblico servizio che vengono meno ai loro doveri….) sia dalle condotte dei privati che vengono in contatto con gli organi della pubblica amministrazione e che tendono a condizionarli.
Commette l'ipotesi di reato previta dall'art. 314 c.p., il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria.
Soggetto attivo di un tale reato può essere solo il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio (è quindi un reato proprio).
Presupposto del reato è il possesso o comunque la disponibilità della cosa da parte del pubblico funzionario, cioè la possibilità dello stesso di disporre la cosa, al di fuori della sfera altrui di vigilanza, sia in virtù di una situazione di fatto sia in conseguenza della funzione esplicata nell’ambito dell’Amministrazione.
Oggetto materiale del reato è il danaro o altra cosa mobile. La nuova formulazione dell’art. 314 c.p. non prescrive più che il denaro o la cosa mobile, oggetto del delitto, debba appartenere alla Pubblica Amministrazione, ma esige solo che essa si trovi nel possesso o nella disponibilità del soggetto attivo.
Il fatto materiale consiste nella appropriazione del denaro o della cosa mobile posseduti per ragione dell’ufficio o del servizio da parte del Pubblico Ufficiale.
L’art. 1 della Legge 26 aprile 1990, n. 86 recante modifiche in tema di delitti dei Pubblici Ufficiali contro la Pubblica Amministrazione contempla poi l’ipotesi di «peculato d’uso» che si realizza quando il soggetto utilizza temporaneamente, per finalità private, cose fungibili con il proposito di restituirle, proposito che poi effettivamente realizza.
Per "uso temporaneo" non si intende un uso istantaneo, bensì limitato nel tempo, in modo da non compromettere seriamente la funzionalità della pubblica amministrazione (Cass. 16.5.1997, n. 4651).
Commette tale reato (art. 316 c.p.), il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, giovandosi dell’errore altrui, riceve o ritiene indebitamente, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità.
L’errore del privato deve essere "spontaneo", ed il funzionario deve essere in buona fede all’atto del ricevimento della cosa; se l’errore è "procurato dolosamente" da quest’ultimo ricorrerà, infatti, una diversa ipotesi criminosa, e cioè la "concussione" di cui all’art. 317 c.p.
Commette tale reato (art. 317 c.p.), il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, abusando delle sue qualità e dei suoi poteri, costringe o induce taluno a dare e a promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, danaro o altra utilità.
Soggetto attivo può essere sia il Pubblico Ufficiale che l’incaricato di un pubblico servizio, mentre soggetti passivi del reato sono contemporaneamente la Pubblica Amministrazione e la persona che subisce il danno derivante dall’abuso (pertanto il reato è plurioffensivo).
L’elemento oggettivo del reato esige:
L’abuso della funzione deve avere come effetto il costringimento o l’induzione della vittima a dare o promettere danaro o altra utilità non dovuta: il fatto costitutivo del reato, quindi, consiste nel «costringere» o nell’«indurre» (personalmente o a mezzo di terzi che operino come semplici nuncii), per il timore derivante dalla qualità o dai poteri dell’Agente, taluno alla promessa alla dazione.
"Costringere" significa usare violenza o minaccia per esercitare una pressione su un soggetto al fine di determinarlo a compiere un atto positivo o negativo che incide sul suo patrimonio. Non è necessaria una coercizione diretta, ma è sufficiente anche una coercizione indiretta ovvero una minaccia esplicita o implicita (Cass. 9.11.1982, n. 10559).
La "induzione", invece, si oggettiva in una attività dialettica dell’Agente che avvalendosi della sua autorità e ricorrendo ad argomentazioni di indole varia, fondate su elementi non privi di obiettiva veridicità, riesce a convincere il soggetto passivo alla datazione o alla promessa (Cass. 14.1.1983, n. 2819.
In questo caso la condotta non è vincolata a forme predeterminate e tassative, ma può estrinsecarsi in qualsiasi modo: è sufficiente che sia in concreto idonea ad influenzare l’intelletto e la volontà della vittima,convincendola della opportunità, per evitare il peggio, di aderire alla richiesta (Cass. 13.1.1968).
Rientra indubbiamente nell’ampio concetto di induzione anche l’attività che comporti un «inganno» della vittima, sia nella forma degli artifici o raggiri che nella forma della semplice menzogna o del finto consiglio.
In linea generale, ricorre il reato di "corruzione" (artt. 318-322) in tutti i casi in cui, per effetto di un accordo intervenuto fra un Pubblico Ufficiale ed un privato cittadino, il primo accetta dal secondo, per un atto relativo all’esercizio delle sue attribuzioni, un «compenso» che non gli sia dovuto.
Oggetto della tutela penale delle norme incriminatici in questione è l’interesse della Pubblica Amministrazione alla imparzialità, onestà e correttezza dei propri funzionari.
Il Codice distingue due forme fondamentali di corruzione:
► Nell’ambito di ciascuna ipotesi, il codice distingue, inoltre, tra:
Esaminando distintamente le quattro ipotesi criminose possiamo dire che rispondono del reato di «corruzione impropria antecedente» il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che rivesta la qualità di impiegato che, per compiere un atto del suo ufficio riceve, per sé o per un terzo, in danaro o altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta o ne accetta la promessa,nonché colui che dà o promette la retribuzione.
Rispondono del reato di «corruzione impropria susseguente» il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che riceve la retribuzione indebita per un atto d’ufficio da lui già compiuto.
Di tale reato risponde solo il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio e non anche il corruttore.
Rispondono del reato di «corruzione propria antecedente» il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, per ottenere o ritardare un atto del suo ufficio o per fare un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità.
Rispondono del reato di «corruzione propria susseguente» il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che riceve denaro o l’utilità per aver agito contro i doveri del suo ufficio o per aver omesso o ritardato un atto di ufficio, nonché colui che ha dato il danaro o l’utilità.
La corruzione pur avendo in comune con la concussione l’abuso delle funzioni e l’illiceità del profitto se ne differenzia per la posizione in cui si trovano le parti è per l’elemento psicologico. Nella corruzione le parti si trovano in condizioni di parità ed il privato è libero di porre in essere, d’accordo con il un illecito rapporto.
Nella concussione invece è caratteristica la posizione di preminenza del il Pubblico Ufficiale, di conseguenza, la determinazione all’illecito è la conseguenza della coartazione della volontà del privato soggiogata dall’impossibilità di conseguire in altro modo l’utile sperato.
Commette tale reato (art. 322 c.p.), chiunque offra o prometta denaro al pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio per indurlo a compiere un atto del proprio ufficio o servizio (istigazione alla corruzione impropria) ovvero indurlo ad omettere o ritardare un atto dell’ufficio o servizio o fare un atto contrario ai doveri d’ufficio (istigazione alla corruzione propria), nel caso in cui l’offerta o la promessa non venga accettata.
E’ pertanto un reato "monosoggettivo" perché è essenziale la «mancata accettazione» da parte del funzionario. E’ quindi un tentativo di corruzione previsto come reato autonomo per reagire ad un fatto che è grave insidia alla rettitudine e al disinteresse che devono accompagnare il funzionario, il tentativo pertanto non è configurabile.
Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato[1], commette tale reato (art. 323 c.p.), il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto.
Il reato di abuso di ufficio così delineato è frutto di modifiche introdotte dalla Legge 16 luglio 1997, n. 234.
L’aspetto più significativo della nuova formulazione dell’art. 323 c.p. è rappresentato dal fatto che la configurabilità del reato è ancorata al verificarsi di un «evento di danno», consistente nell’aver procurato a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero nell’aver arrecato ad altri un danno ingiusto. In tal modo il legislatore ha inteso individuare con maggiore precisione le condotte al fine di ridurre i margini di interpretazione affidata alla giurisprudenza.
Il reato in questione, non è più un reato di pericolo, come nella precedente formulazione, e ai fini della consumazione occorre che si sia verificato un «danno ingiusto» o che si sia procurato un «ingiusto vantaggio patrimoniale». La soglia della punibilità non si arresta più al pericolo di un vantaggio o di un danno, ma viene spostata in avanti al momento in cui vantaggio e danno da potenziali si trasformano in attuali.
Altro elemento di novità dell’articolo in esame riguarda la necessità della violazione di norme di legge o di regolamento realizzata dal il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio. Anche questo aspetto serve a circoscrivere la configurabilità dell’abuso mediante omissione: infatti, l’abuso può essere integrato anche da un comportamento omissivo che violi l’obbligo di fare imposto delle norme.
La condotta punita può consistere anche nella violazione dell’obbligo di astensione, non solo quando sussista un interesse proprio o di un prossimo congiunto, ma anche «negli altri casi prescritti». Questa espressione generica pone problemi sia sotto il profilo della tassatività che sotto quello della riserva di legge.
L’oggetto giuridico del reato in esame è rappresentato dal «buon andamento e dall’imparzialità della Pubblica Amministrazione da condotte viziate dall’affarismo privato dei suoi dipendenti» e soggetto attivo può essere il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio: si tratta, dunque, di un reato proprio.
[1] Ad esempio, è più grave reato la concussione (art. 318 c.p.)
Il "segreto d’ufficio" costituisce uno dei doveri fondamentali del Pubblico Ufficiale. Secondo la dottrina prevalente, il segreto è definibile come la situazione corrispondente ad un interesse giuridicamente apprezzabile di un soggetto a che un determinato contenuto di esperienza non sia rivelato a altri.
Il segreto è d’ufficio quando abbia ad oggetto «notizie d’ufficio», per tali intendendosi tutte le cognizioni facenti parte della competenza dell’ufficio o del servizio cui è addetto il soggetto obbligato al segreto. Tale obbligo può derivare da una legge, da un regolamento, da una consuetudine, ovvero dalla natura stessa della notizia, ricollegabile al tipo di attività svolta dall’agente, che può recar danno alla Pubblica Amministrazione.
L’art. 326 c.p. prevede "tre distinte figure" di reato configurabili come casi di inosservanza di segreto d’ufficio:
Se il profitto non è di natura patrimoniale, ovvero lo scopo è di cagionare ad altri un danno ingiusto, la pena è minore (art. 15 della Legge 26.4.1990).
Oggetto specifico della tutela penale è l’interesse della Pubblica Amministrazione, intesa in senso lato con riferimento anche alle funzioni legislative e giurisdizionali dello Stato, al normale svolgimento delle proprie attività.
L’elemento materiale del delitto doloso consiste nel portare a conoscenza di persona non autorizzata a riceverla la notizia d’ufficio destinata a restare segreta ovvero nel tenere un comportamento, positivo o negativo, che comunque faciliti al non autorizzato la cognizione della notizia.
Nella ipotesi, relativa alla agevolazione colposa, invece, la conoscenza del segreto da parte del non autorizzato avviene a seguito di negligenza del come nel caso in cui lo stesso lasci incustodito un importante documento riservato.
Con la nuova formulazione, introdotta dall’art. 16 della legge 26 aprile 1990, l’attuale art. 328 comma 1 c.p. punisce una condotta di rifiuto dell’atto d’ufficio.
Non è richiesta, quindi, la semplice omissione ma un’omissione qualificata da una manifestazione di volontà contraria al compimento dell’atto che potrà essere espressa (quando il soggetto tenuto ha dichiarato di non voler agire) o tacita (quando egli sia rimasto inerte alle sollecitazioni rivoltegli). E’ inoltre necessario che l’atto «per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o di ordine o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo».
Quanto all’ipotesi prevista al secondo comma dell’art. 328, commette tale delitto il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, fuori dei casi previsti dal primo comma, entro 30 giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo.
La condotta punita è, in questo caso, l’omissione, e cioè il mancato compimento dell’atto dovuto.
In tale categoria rientrano tutti quei reati commessi in danno della Pubblica Amministrazione da soggetti estranei al suo apparato organizzativo.
Oggetto specifico è la tutela dell’interesse della Pubblica Amministrazione alla libertà di decisione dei Pubblici Ufficiali, cioè a che i Pubblici Ufficiali decidano quali atteggiamenti, relativi al servizio, debbano assumere senza essere in alcun modo influenzati dagli estranei.
Di essi i principali sono:
► Violenza o minaccia a un Pubblico Ufficiale (art. 336 c.p.)
Commette questo reato chiunque usa violenza o minaccia a un Pubblico Ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio per costringerlo:
E’ necessario sottolineare che l’attività a cui l’agente mira deve essere "futura". Qualora infatti essa fosse già in corso ed il reo mirasse ad opporvisi con violenza o minaccia si configurerebbe l’ipotesi ex art. 337 c.p. (Resistenza).
► Resistenza a un Pubblico Ufficiale (art. 337 c.p.)
Commette tale reato chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un Pubblico Ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza.
L’elemento oggettivo richiede una «violenza» o «minaccia» esercitata contestualmente al compimento dell’atto d’ufficio da parte del Pubblico Ufficiale.
Non è necessario che la violenza o la minaccia sia esercitata direttamente sulla persona del Pubblico Ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio per impedirgli il compimento di un atto del suo ufficio o servizio, ma è sufficiente che essa si estrinsechi su cose, purché anche in tal caso si ponga come ostacolo al concreto compimento dell’attività. Neppure è necessario che la violenza o minaccia pongano in pericolo l’incolumità fisica del Pubblico Ufficiale bastando che esse impediscano l’esercizio dell’atto d’ufficio (Cass. 20.10.1997, n. 9442).
Non integra né violenza né minaccia la c.d. «resistenza meramente passiva» e, quindi, essa non integra il delitto in esame, neppure nel caso in cui il funzionario sia costretto ad usare la forza per vincerla.
Discusso è il problema se e quando la «fuga» possa configurare resistenza a Pubblico Ufficiale. Pacifico è che la semplice fuga a piedi non può mai configurare il reato in esame, in quanto in essa non è ravvisabile né violenza né minaccia (Cass. 13.10.1986, n. 10813).
► La giurisprudenza ha precisato, comunque, che costituisce resistenza a Pubblico Ufficiale:
► Oltraggio a Pubblico Ufficiale (art. 341bis c.p.)
Commette questo reato chiunque in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni .[1] [1]
Abrogato dall’art. 8 Legge 25 giugno 1999 n.205 e introdotto dall’art. 1 comma 8 della Legge 15 luglio 2009, n. 94, l’art. 341 bis c.p. nonostante il dettato di cui ai citati articoli, sanziona penalmente, con la reclusione fino a tre anni, la condotta di chi, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio, a causa o nell’esercizio delle sue funzioni. Viene dunque delimitato il locus commissi delicti - in luogo pubblico o aperto al pubblico - e vengono tutelati onore e prestigio, non alternativamente come nel dettato di cui all’abrogato art. 341 c.p..
La pena è aumentata se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, così come nel precedente art. 341 c.p. una analoga previsione aggravava la pena prevedendo la reclusione da uno a tre anni. Il reato si estingue nel caso in cui l’imputato, prima del giudizio, abbia riparato interamente il danno, mediante risarcimento sia nei confronti della persona offesa sia nei confronti dell’ente di appartenenza della medesima.
In simmetria con quanto ex art. 596 c. IV c.p. se la verità del fatto è provata o se, per esso, l’ufficiale a cui il fatto è attribuito è condannato dopo l’attribuzione del fatto medesimo, l’autore dell’offesa non è punibile.
► Millantato credito (art. 348 c.p.)
Commette tale reato chiunque, millantando un credito presso un Pubblico Ufficiale o presso un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il favore di un o impiegato o di doverlo remunerare.
Il delitto si consuma nel momento e nel luogo in cui l’agente ottiene la dazione e la promessa.
Il reato può concorrere con quello di "truffa" qualora il millantato credito sia uno dei raggiri utilizzati per indurre in errore.
[1] [1] Art. 594 (Ingiuria) e 61 n. 10 c.p. (circostanze aggravanti comuni)
Tutto ciò che è vero può essere alterato, vale a dire falsificato, per ingannare una o più persone determinate ovvero per ingannare un numero indeterminato di persone (= il Pubblico).
La falsificazione finalizzata ad ingannare una o più persone determinate può dar luogo al reato di "truffa" (o a reati simili); la falsità finalizzata ad ingannare il Pubblico Ufficiale da luogo, invece, ai delitti contro la fede pubblica dettagliatamente elencati nel titolo VII del libro II del codice.
I delitti contro la fede pubblica sono perciò i delitti di «falso» e cioè i delitti mediante i quali, alterando il vero, si mette in pericolo:
Si tratta, dunque, di “reati di pericolo” perché le condotte di falsificazione sono punite non in quanto ingannano la pubblica fede (= fiducia), ma in quanto sono idonee a farlo. Questa idoneità va esclusa quando si tratta di «falso grossolano».
Il falso grossolano è quello che può essere accertato da «chiunque…» ed a prima vista. In questi casi, il falso non è punibile perché si tratta di reato impossibile per inidoneità dell'azione (art. 49 comma 2 c.p.).
In base a tale definizione, non sono mai grossolani, perciò, il falso che poteva essere accertato solo da un esperto oppure quello che ha ingannato, comunque, la vittima predestinata.
Il codice ripartisce i delitti contro la fede pubblica in quattro Capi, a seconda dell’oggetto materiale della falsità:
Oggetto di tali reati sono i «documenti pubblici o privati» di cui si vuole tutelare la genuinità e veridicità in quanto mezzi di prova.
Pertanto, la società moderna ha necessità di documentare in maniera sicura e durevole le situazioni che hanno rilievo giuridico e deve perciò tutelarsi, anche mediante la previsione di sanzioni penali, da condotte idonee a mettere in pericolo tale esigenza di certezza.
Per questo motivo, protegge la genuinità e la veridicità degli atti che documentano situazioni e rapporti economicamente o giuridicamente rilevanti.
La genuinità e la veridicità vengono tutelate punendo chi causa la:
- falsità materiale degli atti (artt. 476-477-482 c.p.);
- falsità ideologica (artt. 478-479-480 c.p.).
In questi casi si è di fronte ad un «falso materiale». La falsità, infatti, incide sulla esistenza materiale dell’atto (che non proviene da colui che apparentemente sembra essere l’autore) oppure sulla sua materia che è alterata mediante aggiunte e cancellature. Si dice anche che l’atto, in queste ipotesi, è alterato nella sua «genuinità».
La falsità materiale può assumere due forme:
Si è invece in presenza di un «falso ideologico» quando non viene intaccata la genuinità dell’atto, ma la sua «veridicità»: ossia il suo tenore, il suo contenuto.
Si ha in tutti i casi in cui il documento, né contraffatto né alterato, contiene dichiarazioni menzognere: chi redige l’atto attesta cosa diversa da quel che è stato detto od è realmente accaduto e, nella sostanza redige un atto il cui contenuto non corrisponde a verità.
Affinché i reati in questione si realizzino è necessario:
Dagli esempi appena fatti emerge che i documenti tutelati possono essere di diverso tipo e provenienza. Semplificando al massimo, può dirsi che la principale distinzione è quella fra «documenti pubblici» e «scritture private».
Sono "documenti pubblici" quelli che provengono da un Pubblico Ufficiale o incaricato di un pubblico servizio (artt. 357 e 358 c.p.) e che sono redatti dall’uno o dall’altro di tali soggetti quando è nell’esercizio delle sue funzioni e delle sue attribuzioni.
Sono "scritture private" (o documenti privati) tutti quei documenti provenienti da soggetti sprovvisti della qualifica di Pubblico Ufficiale o di incaricato di servizio oppure redatti da costoro, ma al di fuori dell’esercizio delle proprie funzioni o attribuzioni.
Quando la falsità riguarda un documento pubblico, il reato assume naturalmente maggiore gravità, a seconda del tipo di documento (certificazioni e autorizzazioni amministrative, atti pubblici o copie autentiche di atti pubblici o privati, gli attestati)[1], e del fatto che l’autore sia o meno un pubblico o un privato.
Quando invece alle scritture private, per la falsificazione di talune di esse, il codice penale prevede una pena analoga a quella prevista per gli atti pubblici falsificati dal privato.
Le scritture private prese in considerazione sono il testamento olografo e i titoli di credito (cambiali, assegni, vaglia postali e telegrafici). I reati che le riguardano sono perseguibili a querela.
[1] Gli atti pubblici sono documenti redatti dai Pubblici Ufficiali o dai pubblici impiegati incaricati di un pubblico servizio nell’esercizio delle loro funzioni o attribuzioni (ad esempio: i verbali della P.G., i contratti di arruolamento dei marittimi, i diplomi di studio, la cartella clinica redatta dal medico addetto all’ospedale, i certificati rilasciati dal medico di porto, l’atto di un notaio e l’autenticazione della firma redatta da un notaio, ecc.).
Le certificazioni amministrative sono documenti redatti da un Pubblico Ufficiale per attestare (confermare, comprovare, ribadire) l’esistenza di una determinata situazione o di un determinato fatto giuridico (ad esempio: la carta di identità, il passaporto, la targa dell’autovettura). Le certificazioni amministrative si distinguono dagli atti pubblici, in quanto questi ultimi vengono posti in essere per creare una nuova situazione giuridica; gli altri per dichiarare una situazione giuridica già esistente. Per esemplificare: il notaio che redige un atto di vendita (atto pubblico) crea una nuova situazione giuridica: la proprietà in capo a chi acquista. Il funzionario che rilascia una carta di identità (certificazione) attesta, invece, nel documento delle risultanze emergenti da altri atti in suo possesso.
Come prevede l’art. 476 c.p. lo commette il Pubblico Ufficiale (reato proprio) che, nell’esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso o altera un atto vero.
La condotta consiste nel formare (creare qualcosa che prima non esisteva) in tutto o in parte un atto falso (equivale a contraffare); e nell’alterare (modificare qualcosa di preesistente) un atto vero.
Il reato si consuma con il verificarsi della contraffazione o della alterazione.
Si procede d’ufficio e la competenza è del "Tribunale monocratico". Il colpevole è punito con la reclusione da 1 a 6 anni.
Se la falsità riguarda un atto che faccia fede fino a querela di falso la reclusione è da 3 a 10 anni.
► Falsità materiale commessa dal Pubblico Ufficiale in certificati o autorizzazioni amministrative
Come prevede l’art. 477 c.p. lo commette il Pubblico Ufficiale che, nell’esercizio delle sue funzioni, contraffa o altera certificati o autorizzazioni amministrative, ovvero, mediante contraffazione o alterazione, fa apparire adempiute le condizioni richieste per la loro veridicità.
Appare chiaro che sono due le ipotesi delittuose e che di esse la seconda consiste nella "contraffazione" non dell’atto come tale, ma di alcuni suoi elementi, quali per esempio il visto, la vidimazione, la legalizzazione di firme, ecc. "Contraffazione" si deve intendere formazione di un atto ad imitazione di un atto vero.
Il colpevole è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni (Tribunale monocratico).
Come prevede l’art. 479 c.p. lo commette il Pubblico Ufficiale che, ricevendo o formando un atto nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità.
Il colpevole è punito, ai sensi dell’art. 476 c.p., con la reclusione da 1 a 6 anni, oppure, se la falsità concerne un atto o parte di un atto che faccia fede fino a querela di falso, con la reclusione d 3 a 10 anni.
► Falsità ideologica commessa dal Pubblico Ufficiale in certificati o autorizzazioni amministrative
Come prevede l’art. 480 c.p., lo commette il Pubblico Ufficiale che, nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente, in certificati o autorizzazioni amministrative, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità.
Il colpevole è punito con la reclusione da 3 mesi a 2 anni.
In tale categoria rientrano tutti quei comportamenti che sono idonei a "sorprendere la buona fede" delle Autorità, o di un numero indeterminato di persone, relativamente alla identità, allo stato o alle qualità di un individuo.
► Falsa attestazione o dichiarazione a un Pubblico Ufficiale sulla identità personale sulla identità o su qualità proprie o altrui (art. 495 c.p.)
Commette tale reato (art. 495 c.p.), chiunque dichiara o attesta falsamente al Pubblico Ufficiale, in un atto pubblico, l'identità o lo stato o altre qualità della propria o dell'altrui persona ovvero chi commette il fatto in una dichiarazione destinata ad essere riprodotta in un atto pubblico.
Oggetto specifico è la «tutela della fede pubblica» da condotte dirette ad alterare gli elementi di identificazione di una persona o le sue qualità di rilievo sociale.
La condotta consiste nel dichiarare o attestare falsamente ad un relativamente alla propria o altra persona:
Le dichiarazioni devono essere rese in "atto pubblico" (Verbale) ovvero devono essere inserite in atto pubblico. Il reato si consuma nel momento in cui le dichiarazioni vengono rese ed indipendentemente quindi dal fatto che siano state o meno riprodotte nell’atto pubblico (il reato quindi non viene meno anche se il dichiarante ritratta le sue dichiarazioni prima della conclusione dell’atto).
► False dichiarazioni sulla identità o su qualità personali proprie o di altri (art. 496 c.p.)
Commette tale reato (art. 496 c.p.), chiunque interrogato sulla identità, sullo stato o su altre qualità della propria o dell'altrui persona, fa mendaci dichiarazioni a un Pubblico Ufficiale, o a persona incaricata di un pubblico servizio, nell'esercizio delle funzioni o del servizio.
Occorre ai fini della punibilità che il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio "abbia richiesto" – nell’esercizio delle funzioni o del servizio – al soggetto di fornire indicazioni sulla identità, sullo stato o sulle qualità della propria persona e dell’altrui persona; che il soggetto "abbia aderito all’invito" (se rifiuta: art. 651 c.p.) e "abbia fatto dichiarazioni mendaci"; che il soggetto fosse consapevole delle qualità del richiedente e della falsità delle proprie dichiarazioni.
Come si vede qui non si hanno dichiarazioni destinate ad essere riprodotte in un atto pubblico; perciò l’ipotesi in esame differisce da quella prevista dall’articolo precedente.
In tal caso si realizza un’ipotesi di concorso di reati, perché commessi in tempi diversi, sia pure con la stessa finalità, ma con diverse violazioni di norme giuridiche, delle quali una protegge la pubblica falsa documentazione e l’altra la pubblica fede personale.
Il colpevole è punito con la reclusione da 15 giorni a 1 oppure con la multa da 5 € a 516 €.
Il regolare e proficuo svolgimento (o meglio, il buon andamento) delle attività della Pubblica Amministrazione può essere turbato dalle condotte (abusi) di quelle stesse persone che sono chiamate ad esercitare tali pubbliche attività.
Nel titolo XII, Capo III, Sezioni II e IV del Codice penale, sono previsti e puniti «i fatti» commessi dai Pubblici Ufficiali che, con la perfetta consapevolezza di agire fuori dei casi consentiti dalla legge e di abusare, quindi, dei poteri inerenti alla pubblica funzione, offendono oltre all’interesse relativo al regolare svolgimento della Pubblica Amministrazione (interesse secondario), altresì gli interessi (primari) relativi alla libertà della persona:
► Arresto illegale (art. 606 c.p.)
Commette il reato di cui all'art. 606 c .p., il Pubblico Ufficiale (357) che procede ad un arresto (380 ss. c.p.p.), con la consapevolezza di abusare dei poteri[1], inerenti alla pubblica funzione (Cass. 22 novembre 1982, Rosa).
Ai fini della punibilità occorre sottolineare che deve sussistere la volontà (dolo) da parte del Pubblico Ufficiale, di procedere all’arresto con la consapevolezza di agire fuori dei casi previsti dalla legge.
Se manca la volontà (ad esempio, errore dovuto a ignoranza) il fatto potrà essere punito soltanto in sede disciplinare.
Il colpevole è punito con la reclusione fino a tre anni.
► Abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 c.p.)
Commette il reato di cui all'art. 608 c.p., il Pubblico Ufficiale che, per ragioni del suo ufficio, sottopone a misure di rigore non consentite dalla legge una persona arrestata o detenuta di cui egli abbia la custodia, anche temporanea, o che sia a lui affidata in esecuzione di un provvedimento dell’Autorità competente.
Occorre ai fini della punibilità che il Pubblico Ufficiale abbia adottato un provvedimento non consentito dalla legge per effetto del quale la libertà fisica della persona arrestata o detenuta o affidata sia rimasta limitata oltre i termini legali.
Il delitto può concorrere materialmente (concorso di reato) con altri delitti i quali offendono beni ed interessi della persona diversi dalla libertà fisica (ad esempio, percosse, lesioni, ingiurie, minacce, ecc.)
Il colpevole è punito con la reclusione fino a trenta mesi.
La stessa pena si applica se il fatto è commesso da un altro Pubblico Ufficiale (357), rivestito, per ragione del suo ufficio, di una qualsiasi autorità sulla persona custodita.
► Perquisizione e ispezione personali arbitrarie (art. 609 c.p.)
Commette il reato di cui all'art. 609 c.p., il Pubblico Ufficiale, che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, esegue una perquisizione (352, 247-252 c.p.p.) o un’ispezione personale (245 c.p.p.).
Occorre che, fuori dei casi in cui la legge autorizza a procedere ad una ispezione o perquisizione personale, il Pubblico Ufficiale abbia provveduto a uno di tali atti con la perfetta consapevolezza di agire fuori dei casi consentiti dalla legge; oppure, nei casi in cui l’ispezione o la perquisizione fosse autorizzata dalla legge, che lo stesso non abbia osservate le formalità prescritte, con la consapevolezza dell’abuso.
Si rammenta che l’art. 354 comma 3 c.p.p. vieta agli Ufficiali di polizia giudiziaria l’ispezione personale del soggetto.
Quando con la perquisizione o l’ispezione arbitraria vengono offesi altri beni, oltre a quello della libertà personale della persona sottoposta agli atti suddetti (ad esempio, libertà sessuale, pudore, onore), si avrà concorso materiale di delitti.
Il colpevole è punito con la reclusione fino ad un anno.
► Violazione di domicilio commessa da un Pubblico Ufficiale (art. 615 c.p.)
Commette il reato di cui all'art. 615 c.p., il Pubblico Ufficiale, che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni (323), s’introduce o si trattiene nei luoghi indicati nell’articolo 614 c.p. (abitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi)
Occorre, ai fini della punibilità, che il Pubblico Ufficiale sia "competente" (presupposto) ad effettuare una perquisizione domiciliare (se lo stesso agisce fuori della sfera dei suoi poteri, risponde del delitto di cui all’art. 614 in concorso materiale col delitto previsto dall’art. 347 - Cass. 28 giugno 1940, Salvetti); che lo stesso si sia introdotto o trattenuto nei luoghi indicati nell’art. 614 c.p. illegittimamente oppure si sia introdotto nei luoghi stessi senza osservare le formalità prescritte dalla legge.
Occorre, infine, che il Pubblico Ufficiale abbia commesso l’azione rendendosi ben conto di commettere un abuso (se difetta la coscienza dell’abuso si avrà soltanto una grave mancanza disciplinare).
La pena è della reclusione da uno a cinque anni se l’abuso consiste nell’introdursi o nel trattenersi nell’abitazione.
Se l’abuso consiste nell’introdursi nei detti luoghi senza l’osservanza delle formalità prescritte dalla legge (250, 352 c.p.p.), la pena è della reclusione fino a un anno.
[1] L’abuso di potere comprende l’usurpazione del potere non conferito dalla legge, l’eccesso di competenza, l’azione fuori dei casi consentiti dalla legge e la mancata osservanza delle formalità prescritte dalla legge.
In tale categoria rientrano tutti quei fatti che ostacolano l’attività dello Stato diretta ad assicurare l’ordine e la tranquillità pubblica.
L’ordine e il buon assetto ed il regolare andamento della vita sociale; la tranquillità pubblica – che rappresenta l’aspetto soggettivo dell’ordine – è la serenità d’animo che deriva al popolo dalla assenza di motivi di allarme, di commozione, di molestia.
► Inosservanza dei provvedimenti da parte dell'Autorità (art. 650 c.p.)
Commette il reato di cui all’art. 650 c.p., chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall'Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o d'igiene.
Oggetto specifico è la tutela dell’interesse all’osservanza individuale dei provvedimenti dati per il mantenimento dell’ordine pubblico genericamente considerato.
Si tratta di una norma penale in bianco ed a carattere ausiliario (opera cioè solo se l’inosservanza del provvedimento dell’Autorità non è punita da un’altra norma penale).
La condotta consiste nel non osservare un provvedimento (dell’Autorità amministrativa o dell’Autorità giudiziaria) dato legalmente (=provvedimento legittimo: vale a dire emesso dall’Autorità competente e con forme – anche orali – previsti dalle leggi) per una delle seguenti tassative ragioni:
Il reato non sussiste se il provvedimento non è congruamente motivato. In particolare, nel caso dei «biglietti di convocazione» utilizzati dalle Forze di polizia (ed anche dalla Capitaneria di Porto), la persona convocata deve essere posta in condizione di conoscere quantomeno le ragioni generali per le quali è stata chiamata.
► Rifiuto d'indicazioni sulla propria identità personale (art. 651 c.p.)
Commette il reato di cui all’art. 651 c.p., chiunque richiesto da un Pubblico Ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, rifiuta di dare indicazioni sulla propria identità personale, sul proprio stato, o su altre qualità personali.
Occorre accertare che il Pubblico Ufficiale, nell’esercizio delle sue funzioni, abbia richiesto al soggetto di dare le proprie generalità; o che il soggetto abbia manifestato in qualunque modo, ma chiaramente, di non voler rispondere alla richiesta; ovvero che il soggetto abbia voluto non aderire alla richiesta, sapendo che il richiedente era un nell’esercizio delle sue funzioni o non sapendolo per un suo errore colposo.
Il rifiuto di fornire la prova delle proprie generalità "non costituisce questa contravvenzione" allorquando il soggetto declina le proprie generalità a voce, rifiutando di esibire il documento di identità (artt. 4 e 157 T.U.L.P.S.).
Il reato sussiste anche nel caso che, "dopo il rifiuto" il soggetto fornisca spontaneamente le generalità (Cass. 23 febbraio 1985, Cardinato).
Se il soggetto, invece di tacere, declina generalità false, commette il delitto di cui all’art. 496 c.p.
Ai fini del nostro studio, appare opportuno analizzare le fattispecie penalmente rilevanti che possono concretizzarsi a seguito dell’evento costituito dalla «navigazione marittima», e che possono di massima verificarsi per le seguenti violazioni, rispettivamente contemplate dal Codice Penale, dal Codice della Navigazione e da altre Leggi speciali:
Links:
[1] http://www.nonnodondolo.it/../1/edit%231